Con sentenza n. 260, depositata il 28 dicembre 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)»
L'articolo in esame prevedeva che l’entrata in vigore del decreto determinava l’interruzione del termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute al Garante Privacy in forza della normativa precedentemente in vigore.
Il Tribunale di Verona, che aveva rimesso la questione alla Corte, in punto alla non manifesta infondatezza, aveva rilevato un eccesso di delega da parte del legislatore, ai sensi dell'art. 76 Cost., nonché la violazione dell'art. 3 Cost. sotto diversi profili.
In particolare il Tribunale rimettente aveva evidenziato il contrasto tra la norma in esame ed i principi di proporzionalità e di ragionevolezza tutelati dalla norma indicata.
Nell'ordinanza di rimessione si legge infatti che la disposizione censurata «consente all’autorità di rimanere inerte nell’esercitare il proprio diritto per un lasso di tempo ulteriore che può durare sino a cinque anni dall’entrata in vigore dell’art. 18 del d.lgs. n. 101/2018, senza che questa inerzia possa trovare giustificazione nell’esistenza di ostacoli di fatto nell’esercitare il diritto a riscuotere le somme». Al contrario, i primi commi dell’art. 18 del d.lgs. n. 101 del 2018 disegnerebbero un meccanismo di semplificazione del procedimento, sicché non vi sarebbe alcun aggravio procedimentale per l’amministrazione tale da giustificare e da rendere conforme al principio di proporzionalità l’interruzione ex lege della prescrizione. La previsione censurata evidenzierebbe, inoltre, una manifesta irragionevolezza, perché «in base agli articoli 2943 c.c. e 2944 c.c. – richiamati dall’art. 28 della l. 689/1981 a sua volta richiamat[o] dall’art. 166 del codice della privacy nella sua formulazione pro tempore vigente – costituiscono atti di interruzione della prescrizione la domanda giudiziale e, per i diritti di credito, ogni atto che valga a costituire in mora l’obbligato, nonché gli atti con cui il soggetto obbligato riconosce l’altrui diritto». Per converso, «la situazione di pura stasi [di un procedimento amministrativo non sarebbe] neppure lontanamente assimilabile ad un atto di esercizio del diritto o ad un atto di riconoscimento proveniente da parte del soggetto passivo della pretesa creditoria». Sarebbe, quindi, «del tutto irragionevole, rispetto alla disciplina ordinaria degli atti interruttivi della prescrizione, ricollegare alla mera esistenza di un procedimento sanzionatorio l’effetto interruttivo della prescrizione».
La Corte ha accolto l'argomentazione, dapprima ricostruendo il quadro normativo nel quale si colloca la disposizione censurata ed in seguito motivando l'inutilizzabilità dell'istituto dell'interruzione della prescrizione nel caso specifico, anche alla luce di precedenti valutazioni critiche in merito all'ampliamento ex lege del termine di cui all’art. 28 della legge n. 689 del 1981 (si veda sul punto la sentenza n. 151/2021)
Nella motivazione della sentenza in merito si legge:
Pur rimettendo alla discrezionalità del legislatore la precisa individuazione di un termine di decadenza per l’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento sanzionatorio, la citata sentenza ha ritenuto che l’ampiezza del termine di prescrizione «di durata quinquennale e suscettibile di interruzione, lo rend[a] inidoneo a garantire, di per sé solo, la certezza giuridica della posizione dell’incolpato e l’effettività del suo diritto di difesa, che richiedono contiguità temporale tra l’accertamento dell’illecito e l’applicazione della sanzione». Infatti, «la fissazione di un termine per la conclusione del procedimento non particolarmente distante dal momento dell’accertamento e della contestazione dell’illecito, consentendo all’incolpato di opporsi efficacemente al provvedimento sanzionatorio, garantisce un esercizio effettivo del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. ed è coerente con il principio di buon andamento e [di] imparzialità della PA». Le ragioni di contrasto con l’effettività della tutela del privato, già evidenziate da questa Corte con riferimento all’art. 28 della legge n. 689 del 1981, chiaramente si accentuano in presenza di una interruzione ex lege del medesimo termine di prescrizione quinquennale, disposta in pendenza dell’inerzia dell’amministrazione. (omissis)
L’amministrazione può attivarsi per la riscossione delle somme dovute in base all’ordinanza-ingiunzione prodottasi ope legis, oppure, nell’ipotesi in cui il privato presenti nuove memorie difensive ai sensi dell’art. 18, comma 4, del d.lgs. n. 101 del 2018, può emettere l’ordinanza-ingiunzione, anche oltre un quinquennio dall’unico atto che è stato notificato all’interessato: grazie all’interruzione, si sommano infatti altri cinque anni al tempo già trascorso dalla notifica della contestazione alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 101 del 2018. Per converso, il privato, dopo aver rispettato il termine di trenta giorni per opporsi alla contestazione della sanzione amministrativa, può doversi difendere, sempre entro trenta giorni dalla notifica della cartella o dalla notifica dell’ordinanza-ingiunzione, a distanza di oltre cinque anni dalla notifica dell’atto con il quale gli era stata contestata la violazione. Nessun’altra comunicazione, infatti, è tenuta a effettuare l’amministrazione medio tempore, neppure con riferimento alle facoltà concesse ai privati dai primi commi dell’art. 18 e alle conseguenze derivanti a carico di coloro che non si avvalgano di tali facoltà.
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