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Locazione e COVID una nuova chiave di lettura o una forzatura dettata dal caso in esame?

Un recente provvedimento del Tribunale di Roma in materia di locazioni commerciali (Trib. Roma ord. 16 dicembre 2020 consultabile su https:wwww.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2020/12/romaCOVIDlocazion.pdf ) propone una diversa chiave di lettura delle problematiche che hanno investito le locazioni commerciali a seguito della pandemia. Nel caso di specie il locatore aveva richiesto la convalida dello sfratto per una morosità del conduttore particolarmente rilevante (euro 256.200,00), sul presupposto che la società conduttrice aveva interrotto il pagamento dei canoni a causa dell'epidemia e non aveva voluto accogliere le proposte pervenute dal locatore di rinunciare a parte dei canoni relativi alle mensilità in cui l'esercizio commerciale era stato chiuso ed anche una riduzione per le mensilità da maggio a dicembre 2020. La conduttrice si era opposta alla convalida chiedendo la riduzione ad equità del canone per eccessiva onerosità sopravvenuta, invocando altresì l'applicazione del principio di buona fede.

Il giudice capitolino, con provvedimento che merita di essere esaminato, pur nella sua originalità, ha convalidato lo sfratto sulla base dei seguenti argomenti:

- L'esistenza di una emergenza sanitaria non è di per sé condizione intrinsecamente impediente in termini assoluti al pagamento del canone.

- La limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti che si è verificata nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta (..) non alla intrinseca diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione "esterna" dei provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali (...) da ciò deriva che le dedotte conseguenze per il conduttore non sono affatto riconducibili alla emergenza sanitaria in sé intesa, ma al complesso normativo provvedimentale che, su tale presupposto, è intervenuto sui diritti e sulle libertà dei cittadini, ivi compresi quelli dell'interessato istante. (...) si deve quindi verificare se tale compressione fosse insuperabile, con la conseguenza che quanto dedotto può essere preso in considerazione ai fini della domanda, o, al contrario, se vi fosse un insieme normativo provvedimentale che la parte interessata avrebbe potuto caducare e che l'interessato non abbia, negligentemente, impugnato.

- Date queste premesse l'estensore del provvedimento impugnato ha analizzato in via incidentale la legittimità dei decreti emessi dalla Presidenza del Consiglio, ha evidenziato un contrasto con le disposizioni costituzionali ed ha concluso che stante la illegittimità del provvedimento che di fatto ha creato le dette limitazioni e compressioni dei diritti fondamentali (...), e che sono poste alla base della pretesa, la parte ben avrebbe potuto (ed, anzi, dovuto) impugnare tale atto, con ciò eliminando in radice le conseguenze che ne sono derivate. La caducazione infatti avrebbe interessato l'intero DPCM, trattandosi di disposizioni correlate le une alle altre, in un rapporto di stretta connessione che le avrebbe travolte nella interezza. Si tratta quindi, a ben vedere, non di un danno "da emergenza sanitaria” ma di un danno da attività provvedimentale, che si reputa illegittima, e che la parte non si è attivata in alcun modo per rimuovere e, di conseguenza, eliminarne gli effetti dannosi, che dunque ben avrebbe potuto evitare.

- In questa prospettiva secondo l'estensore appare quindi del tutto errato anche invocare concetti quali la buona fede nella esecuzione del contratto da parte del locatore, da cui secondo alcuni (...) si sarebbe fatto addirittura discendere l'obbligo di rivedere le condizioni contrattuali, potendo invece ricondursi le conseguenze subite ad un comportamento omissivo e negligente della parte conduttrice nel non impugnare provvedimenti illegittimi e lesivi dei propri diritti e libertà.

- Fermo restando quanto sopra osservato, l'estensore rileva che non sarebbero comunque esperibili nella fattispecie i diversi strumenti giuridici astrattamente utilizzabili per la correzione di eventuali alterazioni del sinallagma contrattuale. In particolare non si può configurare l'ipotesi di impossibilità sopravvenuta totale o parziale della prestazione in quanto l'immobile è stato occupato anche durante l'epidemia ed il corrispettivo poteva essere versato ed in ogni caso non vi era stata alcuna condotta imputabile al locatore che avesse ridotto la possibilità di utilizzo del bene tantomeno a titolo permanente.

- Non sarebbe invocabile, sempre ad avviso del giudice capitolino, neanche la cosiddetta impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione a seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali di cui al Dpcm dell'1 1 marzo 2020 e seguenti in quanto il divieto di esercitare temporaneamente l'attività non determina l'impossibilità per il conduttore di utilizzare l'immobile, che è la prestazione dovuta dalla controparte (locatore). Inoltre la mancanza degli incassi dovuta alla chiusura forzata dell'esercizio commerciale non determina l'impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (canone), atteso anche che il periodo interessato non è tale da esulare dal c.d. rischio di impresa.

- Non ricorrerebbe infine nemmeno l'eccessiva onerosità sopravvenuta posto che l’immobile ha conservato il proprio valore locativo nel periodo interessato e, comunque, la onerosità deve attenere ad aspetti obiettivi e non alle condizioni soggettive (perdita di reddito, ad esempio) del conduttore. Tale soluzione, peraltro, potrebbe determinare solo la pretesa di risoluzione del contratto da parte del conduttore (evitando il preavviso di 6 mesi per gravi motivi) e sempre che il locatore, di fronte alla richiesta risoluzione, non "offra di modificare equamente le condizioni del contratto”. Anche in questo caso, tuttavia, va considerata la non definitività della situazione di crisi che determina l'eccessiva onerosità ed il periodo limitato di tempo consente di ritenere che si verta in ipotesi di ordinario rischio di impresa, che grava sul conduttore.

Ad avviso di chi scrive il principale punto critico della motivazione (certamente non l'unico) risiede nella necessità di impugnazione da parte del conduttore di uno o più DPCM al fine di far valere il proprio diritto alla riduzione del canone. Ci si chiede in particolare quale sarebbe stata la possibilità di successo dell'iniziativa tenendo anche conto che non constano precedenti in termini in nessun organo giurisdizionale amministrativo. Senza contare che, in caso di esito positivo, l'annullamento del provvedimento governativo avrebbe consentito al ricorrente-conduttore il regolare svolgimento dell'attività e quindi la sopravvenuta mancanza dei presupposti per l'ottenimento della riduzione del canone richiesta in sede civile.




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